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Tra difesa dei valori occidentali e del consenso elettorale: il riverbero negli USA dell’invasione russa

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La nostra evacuazione avviene per un successivo scambio, mentre i russi parlano di resa”. Queste le parole riportate su un video ritraente l’uscita dei soldati ucraini dall’acciaieria Azovstal: da oggi, su Mariupol sventola la bandiera russa. Una notizia che anticipa un’ulteriore considerazione che conduce alla consapevolezza della riuscita di quel “Plan B” del Cremlino che mirava al ricongiungimento della Crimea con le regioni separatiste del Donbass. O forse non è proprio così.


Per quanto la missione sia riuscita, è fuor di dubbio che Mosca stia incontrando enormi difficoltà nel mantenimento delle posizioni guadagnate sul campo. Infatti, le controffensive ucraine sono sempre più frequenti, determinate e mirate: vedasi i continui attacchi alle linee di approvvigionamento russe. A Kharkiv non si spara più, anche grazie alla ritirata delle truppe di Mosca, come riferito dal New York Times. Stando a quanto riportato dall’intelligence britannica, Kyiv starebbe concentrando le sue forze per lanciare un attacco verso Izyum e Severodonetsk, con l’ambizione di riprenderne il controllo e di entrare definitivamente nel Donbass.

In questo continuo “Risiko”, i negoziati di pace non possono trovare spazio, a causa della continua ridefinizione dei confini geografici e politici. All’interno di questo scenario, ha un grande impatto la notizia più rilevante degli ultimi giorni: la telefonata intercorsa tra Lloyd Austin, Segretario della Difesa statunitense, e il suo omologo, Sergei Shoigu, rischia di passare inosservata. La richiesta di Austin di un immediato cessate il fuoco rappresenta il primo contatto ufficiale tra USA e Russia dal 18 febbraio e avviene in una fase di stallo del conflitto. Una telefonata avvenuta a cavallo dell’annuncio ufficiale della sottoscrizione della domanda di ammissione nella Nato da parte del governo finlandese.

Le dichiarazioni rilasciate da Joe Biden a margine di un evento di fundraising a Washington, avvenuto una settimana fa, forniscono una valida chiave di lettura: “Non ha una via d’uscita in questo momento e sto cercando di capire cosa fare al riguardo”. La mancanza di una exit strategy per Putin preoccupa molto la Casa Bianca che, evidentemente, teme che il Cremlino possa trovarsi nella scomoda posizione di non poter giustificare un eventuale fallimento delle operazioni militari d’invasione in Ucraina.

Al tempo stesso, la complessa situazione del Grand Old Party, sempre più nell’orbita trumpiana e in difficoltà a causa delle indubbie vicinanze al pensiero putiniano, sta spingendo Joe Biden a cavalcare la frangia più interventista. Una mossa che ha rilanciato le ambizioni elettorali, in vista delle Midterm Elections, dei Democrats, in grande svantaggio nei confronti dei Repubblicani fino a poche settimane prima dall’inizio del conflitto in Ucraina.

La polarizzazione dei contenuti e delle posizioni, culminata nell’assalto a Capitol Hill, rischia di acuire le divisioni interne di un Paese incapace di ripartire e pacificarsi con sé stesso, anche di fronte al violento attacco ai valori occidentali perpetrato da Mosca e subito da Kyiv. È anche in quest’ottica che rientrano le recenti mosse di Washington, che ha deciso di regolamentare e, in parte, limitare l’utilizzo dei propri strumenti di intelligence da parte dei servizi segreti ucraini, per evitare ipotesi di coinvolgimento e cobelligeranza.


Cominciano a sorgere, quindi, le prime trame di veri negoziati ad alto livello, dove Washington e Mosca la fanno da padrone. I rapporti di forza sono ben delineati: l’alleanza atlantica è riuscita nell’intento di non dar spazio ai piani di conquista di Vladimir Putin. Proprio quest’ultimo gode di un elevato consenso, incrementato dalla controinformazione e dalla narrazione antioccidentale. Tuttavia, Putin non può concedersi una debacle e questo, ad oggi, forse rappresenta il più grande ostacolo alla ricerca di una soluzione pacifica ed equa.

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