Da oltre un mese a questa parte, ci siamo abituati, nostro malgrado, ad ascoltare quotidianamente notizie legate a una guerra in Europa, tanto da occupare in maniera pervasiva la quasi totalità dei notiziari, assieme, naturalmente, alle decisioni e gli argomenti ad essa subordinati, dalle reazioni politiche a questioni più contingenti (vedi crisi energetica).
Adottando un punto di vista egoisticamente privilegiato, quello tradizionalmente inteso come occidentale, ci eravamo abituati a sentire parlare di guerre in paesi lontani, oppure in luoghi considerati, superficialmente, “poco civilizzati”, nei quali la rilevanza di un conflitto, tanto per mancanza di una approfondita conoscenza dello scenario, quanto per assuefazione alle news provenienti da quella specifica area geografica, appariva un male accettabile, quasi di background.
D’altro canto, un conflitto ai confini dell’Europa istituzionale, ma ampiamente all’interno di quelli geografici, ha scatenato reazioni profondamente emotive, a ogni livello sociale, al punto da portare a una mobilitazione complessiva di rare proporzioni negli ultimi decenni. Una compassione nei confronti di una scelta belligerante che, a queste latitudini, appare anacronistica, è forse sintomo di un approccio duale nei confronti della guerra e delle conseguenze a cui porta, se confrontata, invece con l’atteggiamento riservato ai conflitti di altre aree geografiche e culture? Una domanda delicata e personale, a cui Barbara Serra, giornalista italiana di Al Jazeera, ha tentato di rispondere. In un suo articolo, si legge un’interpretazione che privilegia l’aspetto di scoramento nei confronti di una storia che non è maestra di vita, bensì va a ripetersi. La giornalista afferma, infatti, che, da “Europea continentale”, quanto sente pronunciare da colleghi e amici europei la frase “Non riesco a credere che questo stia accadendo in Europa”, non ci vede un atteggiamento di superiorità, contrariamente la desolazione dovuta al fallimento dei tentativi fatti negli ultimi 75 anni per prevenire un’altra guerra sul suolo del Vecchio Continente. Una frustrazione che si manifesta nella sua forma più convinta e sentita proprio in quell’Europa Occidentale, nella cui cultura hanno lasciato un segno indelebile gli avvenimenti delle Guerre Mondiali Novecentesche.
In aggiunta a ciò, senza dubbio, vi è un bias psicologico, forse banale ma innegabile, collegato non solo alla vicinanza geografica, elemento di pericolo impellente, ma al fatto che questa vicenda coinvolge un popolo integrato nel tessuto sociale occidentale e in particolare italiano. È normale che non tutte le situazioni e circostanze, positive o negative che siano, assumano per noi lo stesso significato: tendiamo a considerare “nostre” e affettivamente vicine quelle che riguardano persone o luoghi a noi familiari e amici, come invece, al contrario, c’è un’inclinazione a trascurare ciò che concerne ambiti ignoti.
Assumendo, ora, una prospettiva globale, attualmente sono in corso conflitti che coinvolgono, direttamente o indirettamente, 70 stati, tanto da giustificare investimenti in armi annui di 1.981 miliardi di dollari; il FMI, infine, stima che nel 2020 i costi dell’attività belligerante si attestino a circa 15.000 miliardi, equivalente al 17% del PIL mondiale.
Come trovare, pertanto, un equilibrio? Una proposta può essere riconosciuta in un approccio razionale e consapevole rispetto a quella che è la natura umana. Volgendo lo sguardo alla storia dell’umanità, dagli albori fino ad oggi, una delle poche protagoniste invariate è proprio la guerra. Probabilmente risulta cinico da affermare ma essa è parte intrinseca della natura umana, contraddistingue il suo istinto, segue quella tendenza alla prevaricazione, recondito effetto del processo evolutivo: Bradley Thayer, uno dei principali studiosi di relazioni internazionali, sostiene che proprio la tendenza istintiva a proteggere la propria tribù si sia trasformata nel tempo in inclinazioni collettive verso la xenofobia e l’etnocentrismo nelle relazioni internazionali.
Ciononostante, non si propone, naturalmente, tra queste righe, di rassegnarsi e accettare passivamente un destino ineluttabile. Al contrario, occorre mettere in campo le più pragmatiche e veementi azioni per cercare la pace, adoperarsi strenuamente al fine di perseguirla e mantenerla. D’altro canto, però, non illudersi che, una volta raggiunta, nel caso specifico, si apra un periodo di moderna Pax Augustea; già allora, epoca romana, il significato di quell’appellativo che la storia ha protratto nei secoli, simbolo di un periodo di pace e prosperità nell’impero, in realtà nascondeva la presenza di conflitti in essere, sebbene minori.
Concludendo, quindi, bisogna evitare il rischio di perseguire utopie: basti pensare che i 15.000 miliardi sopracitati sono 45 volte tanto quanto si stima basti per azzerare la fame nel mondo (330 miliardi $). La chiave è avere consapevolezza di ciò e confrontarvisi nel modo migliore secondo la sensibilità del singolo: chi donando, chi offrendo accoglienza, chi divulgandone cause e conseguenze, chi “semplicemente” informandosi.